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Il mobbing in Italia: stato dell'arte
Il fenomeno mobbing è in crescita, eppure l'Italia è l'unico Paese dell'UE in cui non esista normativa al riguardo. E allora?
Prendiamo spunto da un interessante articolo di Alessandro Gilioli su L’Espresso per sottolineare che l’Italia, oltre ad essere uno dei pochi paesi europei in cui non si è giunti a formulare una normativa sulla regolamentazione del mobbing, ha addirittura aggirato e rimosso il problema.
L'Inail non riconosce più come 'malattia lavorativa' le patologie psicofisiche determinate da mobbing, dopo una sentenza del Tar del Lazio frutto di un ricorso di Confindustria, mentre i medici legali sono più o meno esplicitamente invitati a non occuparsi del problema, per non penalizzare la propria carriera.
Per assurdo, complice la crisi, il mobbing è un fenomeno in crescita, nelle sue molteplici forme, sia che si parli di mobbing orizzontale (tra colleghi) sia verticale (da parte di dirigenti e datori di lavoro), per non dimenticare il mobbing strategico (serie di azioni volte a portare il lavoratore a dimettersi) e lo "straining" cioè lo stress eccessivo sul lavoro dovuto a pressioni violente per il raggiungimento di obiettivi posti dai programmi aziendali.
Cionondimeno, pare che il fenomeno sia in costante aumento, complice la crisi e la flessibilità lavorativa.
Se la legge sul mobbing è stata dimenticata, in compenso è arrivata la norma che concede alle aziende la libertà di demansionare un dipendente. La novità ha avuto un'eco ridotta, dato che il confronto sul Jobs Act si è concentrato sull'articolo 18; ma il demansionamento riguarderà tutti i lavoratori dipendenti, non solo i neoassunti, quindi cambieranno le condizioni di lavoro per milioni di persone.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le richieste di terapia psicologica legate al disagio sul lavoro, stati depressivi, ansia e disturbi da attacco di panico, e purtroppo anche suicidi, soprattutto tra le persone mature; i blocchi del turn-over e i tagli di personale, diffusi in questo periodo, provocano un aumento di carico di lavoro e di richieste di performance: questa è diventata la prima causa di patologie legate allo stress lavorativo. Altri pazienti, specie nel privato, arrivano a consulto quando sono già stati licenziati o cassintegrati: e hanno il coraggio di denunciare la malattia solo a quel punto. In questi casi, lo scopo non è più sottrarsi alle pressioni e alle vessazioni subite, ma ottenere il riconoscimento della malattia professionale o un risarcimento da parte dell'azienda.
L'Inail attualmente riconosce la patologia da 'costrittività organizzativa' solo nel 13 per cento dei casi; se poi si va alle vie legali contro il datore di lavoro (o ex) le prospettive sono ancora peggiori: mentre in diversi paesi d'Europa (Scandinavia e Germania in testa) le leggi per arginare e prevenire il mobbing esistono da anni, in Italia appunto non è mai stata fatta alcuna norma nazionale. I casi concreti, quando arrivano in tribunale, vengono fatti rientrare nelle leggi contro la discriminazione o più spesso in altri articoli: quelli sul danno biologico o morale e quello che obbliga il datore di lavoro a garantire l'integrità psicofisica dei dipendenti. Le malattie più frequentemente denunciate sono psicologiche (ansia e depressione, ma anche aggressività, dipendenze, perdita dell'autostima, fino ai pensieri suicidi-omicidi) ma spesso anche fisiche (cefalee, tachicardie, gastroenteriti, insonnia, disturbi dell'alimentazione, crollo della libido). Se non ci sono patologie, per fare causa ci si appella al danno professionale, cioè alla perdita di reputazione o di chance di carriera, che però è ancora più difficile da dimostrare. In assenza di una legge, la magistratura interpreta caso per caso avvalendosi della giurisprudenza e delle sentenze della Cassazione: la più importante delle quali, nel 2006, ha stabilito che non è risarcibile il mobbing in sé (cioè i soprusi o le pressioni morali) ma solo le sue conseguenze, come un danno provato alla salute; inoltre, dev'essere chiara 'l'intenzionalità della vessazione' da parte del capo.
L'Inail non riconosce più come 'malattia lavorativa' le patologie psicofisiche determinate da mobbing, dopo una sentenza del Tar del Lazio frutto di un ricorso di Confindustria, mentre i medici legali sono più o meno esplicitamente invitati a non occuparsi del problema, per non penalizzare la propria carriera.
Per assurdo, complice la crisi, il mobbing è un fenomeno in crescita, nelle sue molteplici forme, sia che si parli di mobbing orizzontale (tra colleghi) sia verticale (da parte di dirigenti e datori di lavoro), per non dimenticare il mobbing strategico (serie di azioni volte a portare il lavoratore a dimettersi) e lo "straining" cioè lo stress eccessivo sul lavoro dovuto a pressioni violente per il raggiungimento di obiettivi posti dai programmi aziendali.
Cionondimeno, pare che il fenomeno sia in costante aumento, complice la crisi e la flessibilità lavorativa.
Se la legge sul mobbing è stata dimenticata, in compenso è arrivata la norma che concede alle aziende la libertà di demansionare un dipendente. La novità ha avuto un'eco ridotta, dato che il confronto sul Jobs Act si è concentrato sull'articolo 18; ma il demansionamento riguarderà tutti i lavoratori dipendenti, non solo i neoassunti, quindi cambieranno le condizioni di lavoro per milioni di persone.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le richieste di terapia psicologica legate al disagio sul lavoro, stati depressivi, ansia e disturbi da attacco di panico, e purtroppo anche suicidi, soprattutto tra le persone mature; i blocchi del turn-over e i tagli di personale, diffusi in questo periodo, provocano un aumento di carico di lavoro e di richieste di performance: questa è diventata la prima causa di patologie legate allo stress lavorativo. Altri pazienti, specie nel privato, arrivano a consulto quando sono già stati licenziati o cassintegrati: e hanno il coraggio di denunciare la malattia solo a quel punto. In questi casi, lo scopo non è più sottrarsi alle pressioni e alle vessazioni subite, ma ottenere il riconoscimento della malattia professionale o un risarcimento da parte dell'azienda.
L'Inail attualmente riconosce la patologia da 'costrittività organizzativa' solo nel 13 per cento dei casi; se poi si va alle vie legali contro il datore di lavoro (o ex) le prospettive sono ancora peggiori: mentre in diversi paesi d'Europa (Scandinavia e Germania in testa) le leggi per arginare e prevenire il mobbing esistono da anni, in Italia appunto non è mai stata fatta alcuna norma nazionale. I casi concreti, quando arrivano in tribunale, vengono fatti rientrare nelle leggi contro la discriminazione o più spesso in altri articoli: quelli sul danno biologico o morale e quello che obbliga il datore di lavoro a garantire l'integrità psicofisica dei dipendenti. Le malattie più frequentemente denunciate sono psicologiche (ansia e depressione, ma anche aggressività, dipendenze, perdita dell'autostima, fino ai pensieri suicidi-omicidi) ma spesso anche fisiche (cefalee, tachicardie, gastroenteriti, insonnia, disturbi dell'alimentazione, crollo della libido). Se non ci sono patologie, per fare causa ci si appella al danno professionale, cioè alla perdita di reputazione o di chance di carriera, che però è ancora più difficile da dimostrare. In assenza di una legge, la magistratura interpreta caso per caso avvalendosi della giurisprudenza e delle sentenze della Cassazione: la più importante delle quali, nel 2006, ha stabilito che non è risarcibile il mobbing in sé (cioè i soprusi o le pressioni morali) ma solo le sue conseguenze, come un danno provato alla salute; inoltre, dev'essere chiara 'l'intenzionalità della vessazione' da parte del capo.
Articolo del: 26 lug 2015
di Dr.ssa Daniela Benvenuti